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Dell'intolleranza PDF Stampa E-mail

21 Marzo 2024

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 Da Rassegna di Arianna del 18-3-2024 (N.d.d.)

Stando a quanto riportano i giornali, si è verificato un episodio di contestazione all'Università "Federico II" di Napoli, dove alcuni gruppi studenteschi avrebbero ostacolato la possibilità del direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, di parlare in pubblico. La ragione di questo dissenso sarebbe stata la posizione della testata a supporto prono delle ragioni di Israele nell'attuale conflitto israelo-palestinese. Rimarchevole, rispetto a questo episodio, la presa di posizione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha diffuso una nota con il seguente monito: occorre «bandire dalle università l’intolleranza». E ha spiegato: «Con l’università è incompatibile chi pretende di imporre le proprie idee impedendo che possa manifestarle chi la pensa diversamente».

Ora, assumiamo, per il piacere della conversazione, che quanto riportato dai giornali corrisponda al vero (occasionalmente capita). Se così stanno le cose, non posso che felicitarmi per le parole del Presidente, che affermano un principio fondamentale con cui non potrei essere più d'accordo. Dall'università va bandita ogni intolleranza, ed è incompatibile con il senso storico dell'istituzione universitaria la pretesa di imporre le proprie idee ostacolando l'espressione di chi la pensa diversamente. Le parole, salvo che nel caso limite in cui hanno un senso performativo (come quando si grida "al fuoco" per diffondere il panico o si incita una folla ad un'azione violenta) sono veicoli di riflessione e come tali non c'è mai nessuna ragione in un contesto democratico per bandirle o sanzionarle. Questo vale anche, e a maggior ragione, quando l'oggetto di una tesi possa apparire di primo acchito già risolto in un giudizio consolidato, anche quando la tesi esposte sono correntemente minoritarie, o denigrate. E dunque sarebbe bello che questo principio, eloquentemente richiamato dal Presidente, venisse preso sul serio e valesse su ogni argomento.

Dovrebbe valere, per dire, anche se vengono chiesti spazi per ospitare giornalisti o intellettuali che spiegano le ragioni della Russia nell'attuale conflitto per procura con la Nato e non dovrebbe succedere che, com'è come non è, questi spazi vengono negati anche semplicemente se qualcuno ha il passaporto russo, mentre diventano magicamente disponibili per personaggi che hanno già una eco mediatica alquanto rilevante, tipo Molinari. Dovrebbe valere per scienziati o intellettuali che criticano, o criticavano quando la questione era più pressante, la condotta catastrofica del governo italiano nella vicenda pandemica.

Dovrebbe valere per voci discordanti su temi che, stando alla nostra stampa, sarebbero in cima alle preoccupazioni della civiltà contemporanea come la cosiddetta "ideologia gender" o il cambiamento climatico ad origine antropica, ecc. ecc.

Ecco, dunque non posso che ribadire il mio caloroso sostegno alle parole del presidente Mattarella, ed augurarmi che si ricominci a prendere sul serio il rispetto di questo principio di pluralismo e libera espressione. Ovunque nella società, a partire dalle istituzioni di istruzione superiore. Giacché - e questo forse al nostro Presidente è sfuggito - tale principio è violato con impressionante frequenza da anni.

Andrea Zhok

 
Una svolta di lunga portata PDF Stampa E-mail

20 Marzo 2024

 Da Rassegna di Arianna del 18-3-2024 (N.d.d.)

Nel febbraio del 2020, quando si registrarono i primi casi di Covid in Italia e vennero isolati alcuni piccoli comuni del Veneto e della Lombardia, Giorgio Agamben scrisse sul Manifesto un articolo dal titolo significativo : L’invenzione di un’epidemia. L’autore, che fino al giorno prima era considerato uno dei più importanti filosofi del pianeta, venne immediatamente isolato dall’intero mondo intellettuale italiano, che lo trattò alla stregua di un rimbambito. Anche il giornale su cui era apparso l’intervento prese le distanze dal suo prestigioso commentatore. Il denigratorio epiteto di “negazionista” servì da allora a qualificare chi esprimeva dei dubbi sulla narrazione ufficiale e sulle politiche sanitarie messe in campo dal governo italiano (al nostro misero paese era stato assegnato il compito di battistrada) e poi, a ruota,  da tutti gli altri governi dell’Occidente.

A distanza di quattro anni dagli eventi risulta evidente che l’articolo di Giorgio Agamben aveva colto perfettamente nel segno, soprattutto se diamo alla parola “invenzione” non il significato di “narrazione fantastica”, ma quello, etimologicamente più corretto, di “ingegnosa trovata”. In effetti, tutto, nella vicenda dell’epidemia, è stato costruito in modo artificiale: il virus, che è stato realizzato in laboratorio e forse deliberatamente rilasciato; le misure intraprese (i lockdown, la chiusura delle scuole e degli ospedali, l’uso delle mascherine, la vaccinazione di massa), che  avevano poco a che fare con la salute dei cittadini e molto con l’ingegneria sociale; la mobilitazione del sistema mediatico, che ha profuso terrore a piene mani, censurando in modo ferreo ogni opinione divergente. Azioni di questo tipo presuppongono una lunga preparazione e una  accurata pianificazione. Il fatto che la stragrande maggioranza delle persone abbia aderito sinceramente alla narrazione ufficiale non la rende meno falsa ed artificiale ma dà soltanto l’ennesima conferma che negli uomini alberga uno spirito gregario  pronto a manifestarsi  nei momenti di crisi.

Si è trattato, a conti fatti, di una delle intraprese più scellerate che la storia dell’umanità ricordi. Rilasciare un virus nocivo, relegare in casa per mesi milioni di persone, stravolgere il naturale corso della vita dei bambini e degli anziani, promuovere sistemi di cura inefficaci o nocivi ( in primis la vaccinazione ) e proibire quelli efficaci, istituire crudeli discriminazioni, estendere il controllo sulla vita dei singoli a livelli impensabili: queste non sono barzellette, sono  dei crimini contro l’umanità. Oltre a provocare, in modo diretto o indiretto, milioni di morti, lasceranno una traccia indelebile nella mente e nella psiche di milioni di persone.

A distanza di quattro anni dall’articolo di Agamben dobbiamo purtroppo prendere atto che gli obiettivi di chi ha promosso questa terribile svolta sono stati raggiunti.  L’epidemia non ha soltanto velocizzato di due decenni il processo di digitalizzazione che era già in corso, ma ha avuto anche altre conseguenze. Sono state sdoganate pratiche di governo fino a poco fa ritenute inaccettabili,  come sospendere la libertà di movimento, imporre col ricatto  trattamenti sanitari, censurare preventivamente le opinioni degli oppositori e bloccarne i conti bancari, sottrar loro il lavoro, controllare elettronicamente gli spostamenti dei singoli, calpestare il diritto allo studio e alla cura. Non dobbiamo farci illusioni al riguardo. Per quanto si sia apparentemente tornati alla normalità, nulla garantisce che in un prossimo futuro pratiche di questo tipo, col pretesto di nuove emergenze, non vengano reintrodotte. In questo senso la svolta promossa dall’epidemia è stata di lunga portata.

Silvio Dalla Torre

 
La guerra per nascondere il fallimento PDF Stampa E-mail

17 Marzo 2024

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 Da Comedonchisciotte del 16-3-2024 (N.d.d.)

[…] Nel 1914, i Governi europei scelsero la guerra semplicemente perché non erano in grado di affrontare il crescente scontento delle masse proletarie industriali e contadine. Strasburgo, Trento e Trieste, la neutralità del Belgio, etc. furono effettivamente pretesti – non senza qualche fondamento – delle élite dominanti, per non parlare delle tensioni, sia etniche che sociali, che affliggevano l’Impero Austro Ungarico e l’Impero Russo.  Inviare a morte certa qualche decina di milioni di disgraziati, esistenzialmente “colpevoli” solo di essere nati in Europa alla fine del 1800, sembrò la scelta migliore.

Eppure, per oltre un intero decennio dopo la WW1, prevalse la favola dell’integrale responsabilità di Germania e Austria-Ungheria. In tale “ottica”, la visita ufficiale del Presidente francese Raymond Poincaré a San Pietroburgo del 21 luglio 1914, durante la quale garantì allo Zar Nicola II il supporto incondizionato della Francia alla Russia contro Austria – Ungheria e Germania,  manifestando, inoltre,  la ferma convinzione della vittoria nell’imminente guerra – nove giorni prima della mobilitazione russa – è stata trattata dalla storiografia favolistica dei vincitori della WW1 come, in sostanza, una innocente scampagnata. E la decisione di mobilitare l’esercito francese nello stesso giorno, il 1° agosto 1914, in cui la Germania aveva dichiarato guerra alla Russia (per il rifiuto russo di smobilitare), sempre secondo la favolistica dei vincitori della WW1 sarebbe stata “una decisione essenzialmente difensiva”. Siamo nel più pieno ridicolo, a livello avanspettacolo, ma alla fine non c’è molto da ridere: infatti, nella presunta coscienza della storiografia dominante – quella dei vincitori – il farabuttone guerrafondaio Raymond Poincaré l’ha scampata alla grande: sono pochi gli storici che lo annoverano tra i principali responsabili della WW1.

Le analogie dello scenario pre WW1 con quello odierno sono più che evidenti sotto diversi profili, ma grazie alla penetrazione pervasiva dei mass media mainstream, in Occidente siamo ormai nel regno della propaganda più ignorante, becera e disonesta. Come l’Europa pre WW1 era in crisi per via dell’incapacità del modello di sviluppo liberista di gestire la massa del proletariato industriale e contadino, così l’odierna UE non è in grado di gestire l’ assoluto e completo fallimento del suo modello di sviluppo. Dopo oltre 20 anni dall’adozione dell’euro e dall’accessione dei Paesi dell’ Est, secondo tutte le statistiche l’UE ha perso oltre il 30% della crescita, del reddito e del potere d’acquisto rispetto agli USA, protagonisti insieme a Cina ed alcuni Paesi asiatici della seconda rivoluzione industriale di internet, Telecom e nuovi media. Non solo, è ormai evidente anche il deciso fallimento della politica di integrazione dell’immigrazione di massa dal Terzo Mondo: in particolare in Francia, Belgio, Italia, Spagna, Paesi Bassi e Svezia è sotto gli occhi di tutti l’estrema difficoltà d’integrare in modo stabile e produttivo i discendenti di immigrati alla seconda, terza e perfino quarta generazione. In tutta l’Europa occidentale, l’assistenzialismo a favore degli immigrati non integrati ha ridotto esponenzialmente  il welfare e l’assistenza sociale delle popolazioni indigene, mentre gli standard di sicurezza pubblica sono degenerati esponenzialmente (Svezia in testa). Il radicale e massiccio interventismo politico ed economico del Governo eletto-da-nessuno della Commissione UE a favore di alcune aree (l’Est Europa) ed alcuni settori (l’economia green e, con la guerra russo-ucraina, il settore militar-industriale), a colpi di centinaia di miliardi di sussidi, agevolazioni e finanziamenti a pioggia, indipendentemente dalle intenzioni ha condotto a risultati catastrofici, quali appunto sintetizzati nella perdita netta di oltre il 30% della crescita, del reddito e del potere d’acquisto rispetto agli USA. Il progetto politico ed economico della Commissione UE, a partire dall’alleanza con gli USA di Obama, era ed è, molto semplicemente, l’estensione imperiale ad Est a scapito della Russia: il nuovo Drang nach Osten. I giganteschi sussidi a pioggia all’ Est Europa sono innanzitutto un’arma politica, una vetrina del benessere europeo sbattuta in faccia ai Russi. Ma il progetto è fallito miseramente: nonostante i miliardi offerti, l’aut-aut imposto dall’UE all’ Ucraina nel negoziato per l’accordo di associazione – o con l’UE, o con la Russia – ha portato alla guerra civile ed al colpo di stato del 2014, e successivamente alla guerra russo-ucraina.

Oggi dovrebbe essere chiaro a tutti che l’Ucraina ha perso la guerra, e che l’unica via d’uscita è la pace, attraverso la definitiva attribuzione alla Russia dei territori occupati – da sempre popolati al 75-80% da Russi – e la garanzia della non adesione alla Nato dell’Ucraina. È una via d’uscita relativamente facile, ed è infatti quella che prospetta la probabile Presidenza Trump. Dovremmo esserne tutti felici: tra l’altro, la rinuncia al gas russo ha portato alla recessione industriale di Germania e Italia. Ed invece, di fronte alla prospettiva della vittoria di Donald Trump e della pace nella guerra russo-ucraina, l’ Europa sta dimostrando di volere la guerra. Si sentono ormai discorsi letteralmente deliranti, dalla guerrafondaia cronica Albrecht VDL al Presidente francese Macron, secondo il quale “se la Russia vincesse la guerra, in Europa non saremmo più tranquilli”. Eppure, dopo la sconfitta della Francia nell’ignobile guerra contro l’Algeria (1954-1962), reputata nemmeno una colonia, ma direttamente “territorio francese” (!!!), l’ Europa e il Nord Africa sono rimasti tranquillissimi per decenni. Idem dopo la fine della guerra civile jugoslava, grazie alla separazione delle parti in conflitto attraverso frontiere definite dall’appartenenza nazionale, soluzione peraltro comparativamente più facile nel caso russo-ucraino. Per non parlare dell’altrettanto ignobile guerra alla Libia, inizialmente scatenata sempre dalla Francia. Se siamo rimasti “tranquilli” dopo quelle guerre ignobili, non si vede perché lo stesso non dovrebbe accadere dopo la pace russo-ucraina. In base a quale logica  si attribuisce a Putin la volontà dell’Armageddon nucleare? Chiunque, Putin incluso, afferra che la Russia ne uscirebbe distrutta, tanto quanto l’Europa e gli USA. Ma non solo la Francia e la Commissione UE, anche GB, Germania e Italia, più ovviamente Polonia e Baltici, si sono dichiarati fermamente intenzionati a continuare ad armare e ad assistere l’Ucraina, firmando accordi e stanziando miliardi di aiuti – in anticipo sulla probabile vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali USA del prossimo novembre. Come dire, mettere il carro davanti ai buoi…

La spiegazione è una sola: il modello di sviluppo (fallito) della Commissione UE prevede necessariamente il Risiko regressivo dell’estensione imperiale ad Est, a diretto scapito della Russia, e l’UE non ha la minima intenzione di rinunciarci, anche se gli USA di Donald Trump si chiamassero fuori. Dopo l’Ucraina, già si sogna la Georgia e l’Armenia… questo è il risultato dell’aver creato un vero e proprio mostro giuridico, dotato di immensi poteri, quale il Governo-eletto-da-nessuno e non sfiduciabile, e pertanto irresponsabile, della Commissione UE.

È esperienza comune, tra lettori e studiosi della storia dello scorso secolo, domandarsi con meraviglia come mai i popoli europei non si accorsero di starsi dirigendo verso le catastrofi epocali della WW1 e della WW2. Ieri come oggi, la risposta è una sola: perché i popoli europei hanno continuato a credere, votare e sostenere le lobbies criminali ed i Governi che le hanno volute, ai quali oggi si aggiunge il mostro del Governo-eletto-da-nessuno della Commissione UE. C’è solo una strada per evitare la Terza Guerra Mondiale: quella della protesta generalizzata dei popoli europei contro la guerra, senza distinzioni tra destra e sinistra tradizionali. E purtroppo, non se ne vede  ancora traccia…

 Belisario 

 
Mobilitazione del 16 Marzo PDF Stampa E-mail

15 Marzo 2024

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 Il 16 marzo l’Italia vedrà in piazza i cittadini aderenti alla mobilitazione unitaria nazionale promossa del Coordinamento No OMS – No Piano Pandemico per chiedere al Governo italiano di tutelare la Sovranità Nazionale e di difendere la salute, la democrazia e la libertà. Il neonato Coordinamento No OMS – No Piano Pandemico scende in piazza in gran parte delle regioni italiane per chiedere al Governo italiano di:

rifare il nuovo Piano Pandemico nazionale in quanto acritica riproposizione delle misure già adottate durante gestione del Covid che si sono rivelate, inefficaci, dannose e antidemocratiche;

rigettare gli emendamenti al Regolamento Sanitario Internazionale dell’OMS, che mirano a trasformare un organo consultivo in un governo sanitario mondiale con poteri giuridicamente vincolanti;

rigettare il nuovo Trattato Pandemico che mira a trasferire la sovranità in campo sanitario, veterinario, ambientale all’M.S. che andrebbe quindi a limitare le libertà fondamentali dei singoli e degli Stati.

Le 6 richieste dettagliate in un manifesto sono:

totale ricambio dei tecnocrati che hanno tragicamente gestito le politiche sanitarie durante la pandemia e che le hanno riproposte nel nuovo Piano;

ritiro dell’attuale Piano pandemico, affidando la stesura di quello nuovo a tecnici non implicati con scelte della precedente Amministrazione e coinvolgendo esperti indipendenti, liberi dai condizionamenti delle industrie farmaceutiche e dalle pressioni della cupola dell’OMS, che forniscano valide prove scientifiche dell’efficacia e sicurezza delle misure proposte;

discussione pubblica, aperta e democratica sul nuovo Piano Pandemico con la libertà di informazione (in contraddittorio) tuttora negata;

serio avvio alla Commissione d’inchiesta sul virus SARS-CoV-2, e sulla catastrofica gestione della pandemia e sulle responsabilità;

in vista della settantasettesima assemblea mondiale dell’OMS (Ginevra, 27 maggio 1° giugno 2024),

invio di una delegazione che, oltre a respingere il previsto Trattato Pandemico, rigetti tutte le modifiche peggiorative del nuovo Regolamento Sanitario Internazionale (RSI).

opposizione al tentativo di affidare nuovi poteri profondamente lesivi delle sovranità degli stati nazionali a questa OMS, che ha già mostrato di abusare dei suoi poteri attuali.

Coordinamento No OMS – No Piano Pandemico

Le città che scenderanno in piazza sono riportate nella locandina ufficiale della mobilitazione

 

 
Crisi della narrazione PDF Stampa E-mail

13 Marzo 2024

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 Da Rassegna di Arianna dell’11-3-2024 (N.d.d.)

Eccoli, i nuovi poveri. Non sono poveri di mezzi, bisognosi di mangiare, di vestirsi, di una casa; non sono poveri economici, come si dice per i migranti né fanno parte di quei milioni di cittadini, pensionati, che non riescono ad arrivare a fine mese. In una società che riconosce l’esistenza dei beni immateriali ci sono i poveri di beni immateriali. Poveri di vita, poveri di esperienze da raccontare, forse poveri di spirito. Sono soprattutto giovani, ma la nuova povertà investe l’intera società e le relazioni pubbliche. Non sanno cosa raccontarsi, tacciono, ripiegano sui loro smartphone, sugli schermi, sulle storie finte e prefabbricate a cui possono accedere. L’indigenza di questo nuovo ceto di “miserabili”, che possono essere pure agiati, investe quel bene elementare che è l’esperienza, e la prima forma di comunicazione culturale, il racconto. È “la crisi della narrazione”: così la chiama Byung-Chul Han, prolifico filosofo sociale tedesco-coreano, nel suo nuovo saggio tradotto da Einaudi. La povertà attiene, a suo parere, all’informazione, alla politica e alla vita quotidiana; investe dunque anche i media. Ma la gente, oltre a vivere sempre meno esperienze da raccontare, legge meno e conosce sempre meno esperienze altrui che meritano di essere narrate. Si potrebbe infatti risolvere la questione dicendo che è un effetto della crisi dell’informazione, il calo della lettura; ma sarebbe una mezza bugia. Perché anche le società analfabete, le società povere del passato che non s’informavano se non attraverso il passaparola, i si dice, la piazza, il mercato, inteso come esperienza di vita prima che come luogo in cui si vendono merci, avevano un ricco tessuto narrativo, comunicavano perché erano comunitarie, socievoli; erano ricche di passato.

Eppure viviamo dentro una bolla narrativa permanente, uno storytelling rumoroso e contagioso; ma frastornati da questo incessante cicalare dei mezzi di comunicazione viviamo dentro un vuoto narrativo. Viviamo anzi, secondo il filosofo, “in una società postnarrativa”; e senza racconto “non si dà alcuna festività”, nessun sentimento di celebrazione, “nessuna intensificazione emotiva dell’essere”. Eppure se senti le interviste e i reportage sugli eventi pubblici, la parola chiave, ricorrente, anzi ossessiva, è “emozione”. Non c’era intervista intorno a un evento pervasivo come Sanremo che non ruotasse intorno alla parola emozione; era l’unico esito, l’unica domanda e l’unica risposta sull’esperienza canora. In questo quadro, dice Han, trovano spazio “i modelli narrativi populisti, nazionalisti, di estrema destra o tribali, inclusi i modelli narrativi complottistici”. Fanno presa perché offrono a buon mercato senso e identità, anche se non sviluppano coesione sociale. Perché gli utenti sono consumatori solitari.

Eppure la narrazione deborda tramite film, tv, storie sui social, e veicola l’ideologia del nostro tempo. Ma non è una contraddizione, anzi c’è un nesso tra questa narrazione woke, massiccia e invasiva, e la crisi del racconto. Perché non se ne può più di quello storytelling moralista a senso unico, ci sentiamo prigionieri di quegli schemi obbligati: se si narra di storia, il tema è il nazismo e suoi affluenti; se si racconta di storia sociale il tema è il razzismo e i suoi annessi e connessi; se si racconta una storia intima è storia di omosessuali e simili; se è storia di genere è femminismo, inclusione, ecc. Il buono nel racconto è sempre nero, donna o vittima rituale del cattivo, il conservatore, il nazionalista, la società patriarcale e tradizionale. E per uscire da questa cappa, per colmare un bisogno di senso, identità e orientamento, non resta a molti che abbandonarsi alla contronarrazione, quella che non proviene dall’alto ma dal basso, quella populista, radicale, perfino complottista. Anche il romanzo contemporaneo, per Han, non genera comunità ma promuove solitudine, anzi peggio, isolamento. “Siamo marionette tenute al filo da forze sconosciute”, dice Georg Bruckner. Niente viene più tramandato, non c’è più esperienza verticale che si trasmetta tra le generazioni, mancando la memoria storica e il legame generazionale tra giovani e vecchi; al suo posto disponiamo dello sterminato menu del web o dei social, che ci narrano in progress il presente, le novità trendy, le tendenze prevalenti. Anzi le sue tendenziosità prevalenti, dunque il narrare cede il passo alla veicolazione ideologica, alla tesi prefabbricata. Il nuovo barbaro, nota Han, “celebra la povertà d’esperienza come un’emancipazione”; così siamo diventati poveri. Abbiamo ceduto un pezzo dopo l’altro dell’eredità umana. Viviamo in una società di vetro: perciò tutto dev’essere trasparente, vuoto, fragile e se si frantuma, tagliente, pericoloso. Una società senza alternative, oltre che priva di nostalgia. Il mondo appare “di troppo” come ne La Nausea di Sartre. L’analisi di Han prende una piega conservatrice, critica il dominio della tecnica, dei consumi e dell’intelligenza artificiale, nostalgica dei miti e dell’esperienza reale. Ma Han, come spaventato per la “deriva” reazionaria, alla fine torna precipitosamente indietro, elogia la società inclusiva, la società cosmopolita che è l’esatta negazione della società comunitaria che prima aveva elogiato. E se la prende con i modelli narrativi conservatori e nazionalisti per salvare in corner la sua “inclusione” nella casta intellettuale del nostro tempo. Una ritrattazione che mortifica la sua intelligenza libera e manda all’aria tutto quel che aveva detto fino allora. Ma l’intelligenza esige coraggio e amor di verità…

Marcello Veneziani

 
Terreno conteso PDF Stampa E-mail

11 Marzo 2024

 Da Comedonchisciotte dell’8-3-2024 (N.d.d.)

L’area a sud del Rio Bravo è quella che fin dalla sua “scoperta” da parte dell’Occidente politico ha garantito grandi vantaggi per chi è riuscito ad influenzarla. Se dal XV – XVI secolo furono gli spagnoli e i portoghesi (e in minima parte i francesi) a trarne enormi vantaggi attraverso la “conquista e colonizzazione”, il 1823 è invece l’anno decisivo per l’inizio “ufficiale” della presenza USA. Inizio ufficiale in quanto l’allora Presidente Monroe emanò la sua Dottrina, passata appunto alla storia con il nome di “Dottrina Monroe”. Dottrina che può essere riassunta così: l’America agli americani. Intendendo però un assunto ancora più specifico: l’America agli Stati Uniti. In sostanza, tale enunciazione impegnava Washington a dedicare gran parte delle sue risorse all’allargamento della propria influenza nel continente, intimando al contempo alle potenze colonizzatrici europee arrivate nel XV secolo di non cercare di allargare i propri domini. E di fatto promuovendo anche tutta una serie di misure atte a “invogliare” le potenze del vecchio continente ad abbandonare l’area.

Accanto a questa enunciazione “materiale” si materializzò anche un assunto più “spirituale”: il “Manifest Destiny”. Ossia la convinzione di larga parte dell’élite politica USA che questa nazione fosse stata investita da un compito divino, che avesse avuto un destino chiaro e da mettere in campo: l’esportazione del proprio modello di convivenza, della propria civiltà ove essa non era presente. Due pilastri sui quali sono state costruite le basi dell’impegno statunitense nel continente (e oltre). Due pilastri che hanno fatto da base alla costruzione dell’ “Isola Geopolitica”  di Washington e successivamente della sua capacità di espansione nel mondo. Dove per Isola Geopolitica si intende il Continente americano, negli anni diventato sostanzialmente “immune” dalle interferenze esterne a esso ma ha visto una preponderante influenza di una Nazione: gli Stati Uniti d’America. Questa Isola creata da Washington nel Continente, dunque, insieme alla benevolenza geografica garantita dall’accerchiamento di essa da parte degli Oceani Pacifico ed Atlantico, ha garantito alla maggiore potenza dell’area vantaggi innegabili e indiscussi che hanno fatto da terreno fertile per la sua capacità di proiezione globale (una sorta di sviluppo della medesima Dottrina Monroe, da “continentale” a “mondiale”).

In primis due vantaggi: Materie prime vicine e a basso costo; Reali minacce militari ai confini inesistenti. Situazione sostanzialmente diversa dalle altre Grandi Potenze globali o regionali nel mondo, tutte con vicini più o meno alla ricerca di un loro “posto al sole” da media o grande potenza e con capacità belliche decisamente superiori. Situazione che ha dunque permesso agli USA di soppiantare la Gran Bretagna come prima potenza talassocratica del globo, sfruttando la sua posizione geografica e le sue immense risorse per espandere la propria influenza. Situazione vantaggiosa per gli USA nel suo “cortile di casa” che ha vissuto i suoi maggiori momenti “di gloria” fino alla dissoluzione dell’URSS (nonostante “piccole” ma significative débâcle come la Rivoluzione Cubana). Situazione dunque di sostanziale “sottomissione” dell’area latinoamericana e caraibica (prima sotto il dominio europeo e poi USA), comunque combattuta da ampi strati della popolazione durante i secoli (partendo dalle lotte dei “Libertadores” come Simòn Bolìvar). Bolìvar che aveva intuito la situazione già a inizio XIX secolo quando espresse questa opinione: “Gli Stati Uniti sembrano destinati dalla Provvidenza ad appestare l’America di miserie in nome della libertà”.

Dopo la dissoluzione dell’URSS, dunque, il “rilassamento” di Washington dette la possibilità all’America Latina e ai Caraibi di ritentare uno sganciamento dal “padrino” del Nord e l’ondata socialista iniziata negli anni ’90 del ‘900 grazie alla vittoria alle elezioni del Comandante Chávez in Venezuela ne fu la prova. Un’ondata socialista e progressista mai sopita del tutto, nonostante vittorie e sconfitte. Vittorie e sconfitte che hanno fatto dell’America Latina e dei Caraibi un’area comunque in grande fermento, ancora una volta promotrice di modelli di sviluppo alternativi (CELAC, ALBA – TCP, Socialismo del XXI secolo) e alla continua ricerca di una sua unità e indipendenza scevre dal giogo statunitense.

Un’area che è diventata terreno conteso, terreno di scontro decisivo fra chi aspira al mantenimento dell’ordine globale unipolare e chi invece promuove e si impegna per la nascita di un mondo multipolare. Terreno decisivo di scontro, quello latinoamericano e caraibico, in quanto senza di esso Washington non avrebbe certamente la possibilità di concentrare praticamente tutte le sue forze fuori dal continente, venendogli dunque meno quella sua capacità di proiezione esterna che gli ha garantito la possibilità di essere prima una delle due super potenze nel mondo bipolare e poi l’unica durante l’unipolarismo. Ed è per questo, dunque, che Washington è tornato prepotentemente ad occuparsene già dagli inizi del III millennio.

Per fare qualche esempio: Il sostegno al colpo di stato di Carmona in Venezuela nel 2002, così come il sostegno al Presidente autoproclamatosi Guaidò dal 2019; Il riconoscimento del contestato governo ad interim di Jeanine Áñez in Bolivia del 2019 – 2020. Ed è per questo, però, che anche la Cina e la Russia (le due maggiori potenze del globo alternative a Washington e al modello che esso propugna) si stanno impegnando così decisamente in quest’area. Impegno politico, economico e militare in primis nel sostegno all’ “Asse del Male” (così definito dall’élite politica USA) Nicaragua – Cuba – Venezuela. Impegno che però si concretizza anche nella promozione del rafforzamento dei legami con vari Paesi dell’area sia bilateralmente che all’interno di organizzazioni sovranazionali (leggasi il Brasile nei BRICS e l’invito all’Argentina poi rifiutato da Milei).

Per fare qualche esempio: Cancellamento del 90% del debito cubano verso la Russia nel 2013 – ’14; Investimenti per circa 50 miliardi di dollari in dieci anni nel terzo millennio da parte di Pechino in Venezuela.  Uno scontro a tutto campo fra unipolarismo e multipolarismo, dunque, dove l’America Latina e i Caraibi giocano un ruolo decisivo e imprescindibile sia per chi difende il mondo unipolare sorto dopo la fine della Guerra Fredda che per chi aspira al mondo multipolare dove tale area sarebbe uno dei poli uniti e indipendenti.

 Alessandro Fanetti

 

            
 
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